La promessa dell’alba, di Romain Gary

Pubblicato nel 1960 da Gallimard, dopo il successo del suo romanzo Les racines du ciel (Le radici del cielo), che nel 1956 gli aveva fatto vincere il Premio Goncourt (massimo riconoscimento letterario francese, che non si può assegnare due volte e che Gary ha vinto due volte! ma questa è un’altra storia), primo romanzo ecologista, Gary (il cui vero nome è Roman Kacew) è a un momento di svolta personale: ha intrapreso la carriera diplomatica dopo aver partecipato alla guerra da protagonista e sta iniziando a concepire la scrittura come una seconda vita, o meglio come una messa in scena della vita stessa. È una forma di no fiction che ritroveremo in modo ancora più esplicito in Cane bianco e che precede la moda della no-fiction o di quell’autobiografia romanzata che in Emmanuel Carrère ha trovato la sua forma più compiuta. Con La promesse de l’aube Gary racconta la sua infanzia in Lituania e in Polonia, l’emigrazione in Francia, ma soprattutto l’amore smisurato e determinato della madre e il suo sogno, del tutto incongruo, assurdo, di vedere suo figlio diventare un grande uomo (uno scrittore francese, un diplomatico!). E il finale è uno dei più belli che io abbia mai letto.

La vie heureuse, di David Foenkinos

Noi tutti, a un certo momento della nostra esistenza, vogliamo essere un altro. C’è un grande desiderio di morire e rinascere», scrive David Foenkinos

La vie heureuse di David Foenkinos è il suo ultimo romanzo (2025, Gallimard) che si muove sul confine tra il quotidiano e l’assurdo, tra il desiderio di vivere e la tentazione di sparire. Il protagonista, Éric, è un uomo che sebbene realizzato appare ultimamente piuttosto spento. Divorziato per assenza di stimoli, un lavoro dove eccelle ma che non lo entusiasma più, un figlio che vede poco e che lo considera ancora meno. Ad un certo punto, in un viaggio di lavora in Corea, sparisce dai radar della collega che lo aspetta invano. Cosa succede? Dov’è finito? Perché sparisce così?

Foenkinos, con la sua scrittura limpida e ironica, affronta un tema universale: il bisogno di cambiare vita, di essere, almeno per un attimo qualcun altro. Ma affronta anche un altro tema, più indirettamente: quello di dare un senso appropriato alla propria esistenza. Nella ricerca di essere un’altra persona, va aggiunto anche il bisogno di senso, che ad un certo punto preme di più. Eccellere, diventare bravi, apprezzati, vincere qualcosa, non basta più. La narrazione alterna momenti di malinconia a lampi di comicità, riflessioni profonde a scene di disarmante semplicità. Foenkinos conferma la sua abilità nel far convivere ironia e introspezione, ma sceglie volutamente di non costruire personaggi eroici o memorabili: sono figure fragili, specchi di una condizione diffusa, dove la ricerca di senso è più importante della trama. Un libro che ho letto in viaggio, dall’aeroporto a casa e che in pochi giorni s’è consumato, con leggerezza, acume e ironia, tratti tipici della scrittura di Foenkinos. Forse un grande artigiano del romanzo, forse uno scrittore notevole. Non ho ancora deciso. Ancora qualche romanzo.

L’imbarazzo, frammenti sparsi

Esistono poi relazioni imbarazzanti o relazioni dove l’imbarazzo è l’emozione prevalente. Relazioni fonte di tanti imbarazzi, crogiolo di epiche, memorabili, brutte figure. In particolare: la relazione amorosa. Perché proprio l’amore genera così tanti imbarazzi? Perché la relazione amorosa si confronta con il giudizio. Quando siamo innamorati, siamo esposti. Siamo nudi. E non solo in senso poetico o erotico. Nella relazione amorosa, mettiamo in gioco la parte più vulnerabile di noi stessi: il desiderio di essere visti, accettati, amati, nonostante tutto. L’amore ci mette di fronte a una sfida esistenziale: essere autentici, pur sapendo che potremmo non piacere così come siamo. In fondo, l’amore è il grande palcoscenico dell’imbarazzo umano. Ma forse è proprio questo il suo fascino: l’amore ci obbliga ad essere ridicoli, impacciati, veri. Ci obbliga all’imbarazzo. La relazione amorosa ci espone, ci spoglia, ci restituisce alla nostra umanità più tenera e fragile. La relazione amorosa è il luogo dove si gioca il massimo sforzo di abrogazione del giudizio su di sé e sull’altro. La partita dell’amore si gioca sul terreno dell’imbarazzo, contro il giudizio. 


Tratto da L’imbarazzo. Storie di una emozione, di Max Franti, in via di pubblicazione.

Francis Bacon o del dolore che dà il potere

Francis Bacon trovò in The Painter on the Road to Tarascon (1888) di Vincent van Gogh non solo un’immagine, ma una visione potente, che definì come un «phantom of the road» (“fantasma della strada”)  . Il dipinto originale, purtroppo distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale, giunse a Bacon attraverso una riproduzione a colori, probabilmente un frontespizio di un volume della Phaidon del 1936. Tra il 1956 e il 1957, Bacon realizzò una serie di dipinti ispirati a quel Van Gogh perduto — almeno nove grandi opere secondo gli studi più recenti . In queste variazioni, Bacon intensificò i colori, accostando pennellate energiche e dense, ispirate tanto a Van Gogh quanto a Chaïm Soutine. Studi come Study for Portrait of Van Gogh IV mostrano un paesaggio incline verso l’alto e figure isolate, immerse in ombre opprimenti, che amplificano il senso di isolamento e angoscia.

La critica contemporanea ha osservato nei dipinti di Bacon non solo l’eco del gesto gestuale e del colore incendiario di Van Gogh, ma anche una riflessione sulle fragilità emotive dell’artista, un’identificazione speculare tra due figure tormentate dalla solitudine e dall’incomprensione  .

Però il quadro che mi rimase più impresso di Bacon è questo qui. Non credo che in pittura ci sia un modo più forte di rappresentare il dolore, l’angoscia, la solitudine del potere, la distorsione che il potere genera nelle persone.

David Foenkinos, invito alla lettura

C’è un altro filone di romanzi che cerco costantemente: quelli che introducono del romanzo qualcosa che ha a che fare con lo scrivere romanzi. La famiglia Martin, di David Foenkinos, è un esempio perfetto: la storia comincia quando l’autore decide di entrare per davvero in una famiglia qualunque, facendone i protagonisti di un libro che si sta scrivendo davanti ai nostri occhi.

David Foenkinos scrive con una leggerezza, semplicità, costante ironia. È una voce chiara e riconoscibile. Le sue storie sembrano iniziare per caso, come incontri imprevisti o piccoli dettagli quotidiani, ma presto si aprono a riflessioni più ampie, spesso con un tono ironico e malinconico insieme.
Non che siano saggi filosofici, sembrano piuttosto orientati al filone de “la-bellezza-della-vita-è-nelle-cose-quotidiane”.

Un altro gustosissimo romanzo è Numero due. Dove si racconta la storia del bambino che avrebbe potuto essere Harry Potter al posto di Daniel Radcliffe. Nel 1999, quando si tennero i provini per il film, migliaia di ragazzi si presentarono. Uno arrivò in finale, ma fu scartato all’ultimo. Foenkinos immagina la sua vita: cosa significa crescere sapendo di aver mancato, per un soffio, l’occasione che avrebbe cambiato tutto? Ne viene fuori un romanzo tenero e crudele insieme, che parla di destino, fallimento, successo e delle traiettorie imprevedibili che segnano un’esistenza. È poi è un bell’esempio di sì fiction, ovvero una storia finta (credo) che però usa persone reali per essere raccontata.

Insomma, due piccoli esempi – ma anche Il mistero di Henry Pick merita assai – di come leggere Foenkinos possa essere un’esperienza letteraria particolare e intrigante.

Elogio per Adamsberg

A margine de La trilogia Adamsberg: L’uomo dei cerchi azzurri-L’uomo a rovescio-Parti in fretta e non tornare 

Adamsberg è un poliziotto inventato da Fred Vargas, alias di Frédérique Audoin-Rouzeau, un’archeozoologa e storica francese, nata nel 1957. È un poliziotto sui generis, forse l’antitesi di Sherlock Holmes. Svagato, poco attento, poco disciplinato, non particolare. Risolve i casi più con l’intuizione che con la logica. Roba da far rabbrividire un amante dei polar serio. Ma non si legge Vargas per il polar. Si legge Vargas per entrare nelle atmosfere rarefatte e quasi magiche di questo universo fatto di bruma e tanti dettagli. Si legge Vargas perché questa è letteratura, bellezza, altro che giallo. Adamsberg mi ricorda Wallander, l’altro poliziotto dolente inventato da Henning Mankel, svedese. Un modo di creare poliziotti e polizieschi che trascende il genere, lo amplia, lo articola e lo rende più profondo. Baricco, che se ne intende, riconosce in lei “strepitosa qualità della scrittura”, frasi ben calibrate, dialoghi impeccabili, aggettivi scelti con cura, ritmo elegante e un’elegante ironia narrativa. Parla anche di Adamsberg come di un personaggio la cui arte sta nel creare “parentesi di nulla” nella vita quotidiana, momenti sospesi in cui la trama inevitabilmente rallenta per lasciare spazio all’intuizione e alla incertezza . Ecco, se Joel Dicker è la Formula 1 del poliziesco, Vargas è il suo Cammino di Santiago. Inutile dire che il primo è noioso proprio come una gara di formula 1, la seconda è quasi un percorso di crescita spirituale.

P.s. Ancora meglio la seconda trilogia di Adamsberg. Da non perdere.

L’imbarazzo, frammenti sparsi

Legge tanto e non ricorda quasi niente. Passa da un libro all’altro senza sosta. Il che è imbarazzante, senza dubbio. Perché leggere non gli serve a niente. Se non che l’atto di leggere, sebbene sia solo un modo diverso di consumare, è lo scopo. Conoscere, sentire e poi dimenticare. Leggere è un atto fine a se stesso. Legge per leggere, non per altro. Il piacere di aprire e iniziare un libro. L’idea di ritrovarlo la sera. Scorrere le parole, capire il senso, riconoscere uno stile, comprendere una forma. Il contenuto è un pretesto. Tanto che legge di tutto. Romanzi di autori affermati, racconti di autori sconosciuti. Poesie, storie brevi, saggi, biografie. Tutto. In italiano, in francese, in inglese. (Sapere altre lingue espande enormemente le possibilità). Il caso guida le sue letture e non ha mai letto un libro che non abbia avuto a che fare con quel momento della sua vita. Un libro che poco prima di essere dimenticato non gli abbia fatto dire: “Ah ecco perché mi serve leggerlo ora!”. Conosce solo un altro atto che gli somiglia. Il sesso. Senza alcuna preoccupazione genitoriale, fa sesso per il gusto di farlo. Lo fa in tanti modi, con chi si può (non forza mai, non va a caccia). Ed è bello vedere sempre un modo diverso, un corpo diverso, dei comportamenti strani, inaspettati. Il godere è un pretesto. La cosa divertente è la varietà umana che si mostra. E, come con i libri, il sesso arriva, le donne arrivano, a caso, e non succede mai che non dica alla fine, prima di non vederla più: “Ah ecco perché ti ho incontrata!”.

Tratto da L’imbarazzo. Storie di una emozione, di Max Franti, in via di pubblicazione.

Famiglia moderna

Una volta scrissi una poesia intitolata “Famiglia moderna” e diceva:

Un insieme di persone (almeno due)/ davanti alla televisione (almeno due).

Segnalavo un cambiamento sociale abbastanza evidente: le famiglie si riducevano a due persone e spesso queste due persone non avevano nemmeno un gran rapporto. Era una visione triste, pessimistica delle relazioni di coppia.

La cosa è cambiata, direi in peggio. Ma non a causa delle coppie o delle persone o della loro difficoltà a stare insieme. Il problema non sono loro, ma i loro modelli. E la continua visibilità dei modelli (ipotetici, finti) sui social rende il tutto ancora più difficile. L’immaginario di coppia è talmente assurdo che è chiaro che le persone siano per lo più insoddisfatte. Ci vorrebbe un immaginario diverso, più reale, realistico e soprattutto più umano. Dove con quest’ultimo aggettivo intendo la necessità di fare attenzione all’attaccamento che ho per certe idee o modelli. Le persone cambiano persone, partner, ma non idea. Ciò che fa male alle relazioni non è solo l’immagine che ne abbiamo, ma il margine che abbiamo per poterlo negoziare. In altre parole: è la rigidità con la quale siamo attaccati ai modelli che ci rende la vita difficile. Vederli continuamente ribaditi, non aiuta.

L’imbarazzo, frammenti sparsi

L’”imbarazzo” è una parola derivata dallo spagnolo embarazo, a sua volta proveniente da embarazar, che è un prestito dal portoghese embaraçar ‘allacciare, impacciare’. “Dalbaraço” è il ‘laccio’, di probabile origine preromana. L’imbarazzo è un ostacolo, un ingombro, un impaccio – etimologicamente, una legatura di laccio che impedisce i movimenti. Una breve, accennata, ma non per questo meno fastidiosa, paralisi dovuta a qualcosa che ingombra e impedisce. Così si comprende che ‘sbarazzarsi’ è proprio un liberarsi di qualcosa: «Mi voglio sbarazzare di questo vestito». L’imbarazzo è assumere un ingombro (in spagnolo embarazada è la donna incinta, che in effetti assume un ingombro: la propria pancia), che è lo sguardo degli altri o di sé su se stesso. Ma qui l’ingombro non è un bambino (che idea di infanzia soggiace allo spagnolo?), qui è il giudizio.

Tratto da L’imbarazzo. Storie di una emozione, di Max Franti, in via di pubblicazione.

Michele Mari, obbligo di lettura

Se in Italia c’è uno scrittore con la S maiuscola, uno di quelli che quando leggi, non pensi “beh questo lo posso fare anche io”, ma bensì “forse è meglio che investa più tempo nell’arte nobile del giardinaggio” questi è Michele Mari. Ho letto per ora tre sue cose: Rosso Floyd, Rodderick Duddle, Cento poesie d’amore a Ladyhawke. Ho iniziato e non ho finito altri tre sui libri, ma più per motivi miei che suoi. Comunque. A me bastano quei tre per dire che se uno cerca, come io cerco, cose particolari, trasversali, inclassificabili, beh, Mari offre molte risorse.

Rosso Floyd non è una biografia dei Pink Floyd, e nemmeno un romanzo nel senso tradizionale. È un coro di voci: musicisti, mogli, tecnici, amici, giornalisti, tutti parlano, ricordano, raccontano brandelli di vita e di musica. Il risultato è un mosaico che restituisce la grandezza e le ferite di una band che ha segnato un’epoca. Quello che mi ha colpito è l’intensità della scrittura di Mari: ogni voce sembra vera, ogni frammento diventa parte di un’unica polifonia che è letteraria prima ancora che musicale. È un libro che non si limita a “raccontare i Pink Floyd”: li reinventa, li trasforma e ce li restituisce in modo del tutto personale.

Darò conto di altre letture di suoi testi. Senza dubbio.

Non tutto il bene viene per…

C’è un detto equivalente, al positivo, di non tutto il male viene per nuocere? Non sempre il bene fa bene, e il libro di Bacà parte da questo presupposto. Ho chiesto a ChatGPT di preparare una recensione per questo libro di Fabio Bacà, ma almeno nelle tre versioni che ho provato a farle fare, diceva cose inappropriate. Un libro difficile da catalogare? Scritto in modo molto particolare, unico, direi, a volte molto contorto, ma sempre divertente, brillante, ironico, è un libro che parte dalla situazione per cui un inglese (perché un inglese? Perché è ambientato a Londra?) ad un certo punto avverte di avere la fortuna dalla sua parte in un modo statisticamente (e lui è uno statistico) inaccettabile. E la cosa gli pare comunque inaccettabile: perché tanta fortuna? E già? Se le cose girano tutte bene c’è qualcosa che non va… E cosa succede allora? Pur non essendo minimamente un thriller tiene avvinghiato il lettore che vuol capire cosa sta accadendo e dove si andrà a parare. In che modo si ristabilirà l’equilibrio? Perché comunque occorre trovare un equilibrio. È pur sempre una questione statistica. Il finale mi ha molto sorpreso.

La scienza come romanzo…

Da sempre mi attirano i libri che non sanno stare dentro un confine di genere, soprattutto tra narrativa e saggio. Forse perché anche io, scrivendo Dissoluzioni, mi sono nutrito di testi così: penso a HHhH di Laurent Binet (di cui ho già scritto qui), a L’avversario e a gran parte dell’opera di Emmanuel Carrère, ma anche a Sebald, a Ernaux e ad altri ancora. Sono libri che raccontano cose reali con gli strumenti della finzione, o che inventano per spiegare meglio ciò che è realmente accaduto.

Il libro di Benjamin Labatut, Quando abbiamo smesso di comprendere il mondo, appartiene pienamente a questa categoria di oggetti ibridi, e lo fa con un’intensità particolare. Parla di scienza, di scoperte, di riflessioni matematiche e fisiche, ma lo fa in una forma che destabilizza: non sai mai fino in fondo se ciò che leggi sia reale, ispirato al reale o completamente inventato. Eppure funziona, ed è proprio questo continuo slittamento a renderlo affascinante e intrigante.

Quello che mi conquista è la possibilità di leggere biografie e teorie matematiche come fossero parabole, racconti mitici, metafore della condizione umana. Non è la trama a trascinarmi, ma l’oscillazione costante tra sapere e immaginazione, tra cronaca e invenzione.

Labatut, giovane scrittore cileno, mostra come oggi non si debba (o forse non si possa più) scegliere un unico registro: la scrittura può essere insieme invenzione, documento, riflessione critica e poesia. Certo, in questo processo i confini della realtà si sfaldano, come accade in Dissoluzioni: la verità, l’autenticità, la coerenza morale vengono messe in discussione. Ma proprio da questa frattura nascono possibilità nuove, letterarie e conoscitive, per affrontare la complessità del mondo.

Puoi trovare il libro qui

L’imbarazzo, frammenti sparsi


L’imbarazzo di non essersene andato a studiare e vivere all’estero. A. prova l’imbarazzo di colui che non è emigrato per fare fortuna, per trovare una posizione, realizzare un sogno. Probabilmente non è uno dei migliori, dei più svegli o dei più intelligenti, si dice, un po’ contrito. Sarebbe dovuto andare in America, o in Inghilterra, seguire il flusso, trovare un bel lavoro, essere avanti. Avrebbe dovuto adottare un’altra lingua, altre abitudini, sentirsi meglio, più riconosciuto, nel posto giusto per realizzare il proprio talento. Così avrebbe potuto provare nostalgia, rimpiangere, pensare che comunque era meglio tenersi alla lontana da un paese mediocre, che si percepisce grandioso, dove si vive male e lo si sopporta raccontandosi di come si mangia bene. Avrebbe guardato di tanto in tanto qualche programma, così, per sapere cosa succedeva, e aggiornarsi con ciò che poteva, ma con quella passione fredda e un po’ distante dell’entomologo imberbe che si china sulla blatta. E poi tornare con un vago accento, un senso di estraneità perturbante. Circondato dall’aurea del realizzato, arrivato fino a qualche cima, riverito. Soprattutto da un popolo di (falsi) esterofili. Se se ne fosse andato avrebbe potuto accarezzare l’idea di ritornare definitivamente e scegliere davvero il luogo in cui è nato. A. assapora la gioia del conosciuto e quella del perso, del ritrovato. Avrebbe proprio dovuto andarsene per apprezzare dove è rimasto.

Tratto da L’imbarazzo. Storie di una emozione, di Max Franti, in via di pubblicazione.

Si vive solo due volte…

Ho comprato questo libro attratto dalla copertina. Adelphi continua a regalarci – si fa per dire – edizioni di rara bellezza, e questa collana tutta nera non smentisce la qualità grafica della casa editrice. Solo in un secondo momento ho scoperto che si trattava di un romanzo di Ian Fleming, con un’avventura di James Bond. Non avevo mai letto nulla di Bond: l’ho fatto adesso.

Durante la lettura riaffioravano alla mente immagini di Sean Connery e Roger Moore, anche se non ero sicuro di ricordare bene: in realtà ho visto pochi film della saga, almeno fino all’arrivo di Daniel Craig. A colpirmi, più che l’intreccio, è stata la ricchezza dei riferimenti alla cultura giapponese e al contesto internazionale dei primi anni Sessanta. Anche nella traduzione italiana si percepisce la qualità della scrittura: descrizioni precise, dialoghi scattanti, dettagli ben calibrati. Fleming, come osserva Umberto Eco, “è più colto di quanto lasci intendere”.

Su Bond si potrebbe discutere a lungo. Prima di leggere Fleming, avevo assorbito l’idea – soprattutto dalle riflessioni di Eco e da qualche film visto qua e là – che Bond fosse una figura piatta, psicologicamente inesistente. Invece, almeno in questo volume, qualcosa affiora: un accenno di complessità, una vibrazione più umana. Credo che questo abbia offerto poi la possibilità di rendere più spessa, umana, complessa la sua figura con l’arrivo di Daniel Craig e i registi che l’hanno diretto.

Di tutto il libro però mi è rimasta l’epigrafe, un haiku inventato da Bond nello stile di Bashō: un modo molto azzeccato di rendere conto di una verità:

“Si vive solo due volte:

una volta quando si nasce

e una volta quando si guarda la morte in faccia.”

Infine, giusto per divertimento, constato come in questo romanzo la donna del cattivo sia descritta come “molto brutta”. Di solito, le donne dei cattivi sono molto belle, appariscenti, iperfemminili. Al limite non sono molto sveglie (stanno con l’uomo sbagliato!). Qui invece Fleming non si piega allo stereotipo e descrive come brutta, quasi mostruosa, la donna del cattivo Blofeld. Ci sarebbe da approfondire.

Se vuoi vedere il libro può andare qui


Ritorno a casa…

Il leopardo di ghiaccio non è solo un diario di esplorazione in Kenya e Ruanda. È un’immersione silenziosa in un mondo dove la natura parla un linguaggio antico, che non abbiamo mai smesso davvero di capire. Aaron Latham segue le orme della zoologa Dian Fossey, i gorilla tra le nebbie, le leggende africane. S’immerge in storie e culture diverse in quel luogo speciale che è la Valle del Rift da dove forse tutti noi veniamo. Ed è questa la vera esplorazione: perché si prova qualcosa di speciale in quel posto? La risposta che affiora è questa: la memoria genetica. Latham scrive come se ci fosse qualcosa nel nostro sangue – nei nostri sensi, nei nostri sogni – che riconosce quei luoghi prima ancora di averli visti. Come se, nonostante i secoli, i chilometri, le culture, fossimo sempre rimasti lì, senza mai andarcene veramente, figli della savana, orfani del rumore del vento tra le foglie larghe, dei suoni gutturali degli animali notturni, delle tracce nella terra rossa.

Il libro si muove su due piani: la narrazione del viaggio reale, con la famiglia e le loro peripezie e la riflessione costante che l’autore fa su se stesso e il confronto con ciò che sta vivendo, immerso com’è, in una natura che lo sovrasta.

L’imbarazzo, frammenti sparsi


L’imbarazzo induce all’agitazione e nello stesso tempo è un blocco: la persona si ritrova nel doppio movimento, contraddittorio, di muoversi e bloccarsi. L’imbarazzo imbarazza a sua volta. Essere in imbarazzo è di per sé imbarazzante. Per questo poi è possibile che la situazione peggiori. Caduta in confusione, la persona fa qualcosa che non è né ciò che vorrebbe fare, né ciò che dovrebbe fare. Fa. E quello che fa può essere molto peggio di quello che ha fatto. L’imbarazzo si moltiplica.

Tratto da L’imbarazzo. Storie di una emozione, di Max Franti, in via di pubblicazione.